giovedì 3 marzo 2011

Verso l'8 Marzo - Pagine di libri che ci piacciono

[...] Non potevo non pensare, tuttavia, mentre guardavo le opere di Shakespeare sullo scaffale, che il vescovo almeno in questo aveva ragione; sarebbe stato impossibile, assolutamente impossibile, per qualunque donna aver scritto le opere di Shakespeare al tempo di Shakespeare.

Permettete che immagini, giacché è così difficile reperire dei dati, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, di nome Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare frequentò la scuola ad indirizzo classico, - sua madre era un’ereditiera - dove avrà imparato il latino (Ovidio, Virgilio e Orazio) e gli elementi di grammatica e di logica. Era, è risaputo, un ragazzo turbolento che cacciava conigli di frodo, ammazzò forse un cervo, e dovette sposare, molto prima di quanto avrebbe fatto, una donna del vicinato che gli diede un figlio più velocemente del solito. Questa scappatella lo costrinse a cercar fortuna a Londra. Sembrava che avesse un certo gusto per il teatro; cominciò col tenere i cavalli all’ingresso degli attori. Ben presto cominciò a recitare, divenne un attore di fama e visse al centro del mondo: incontrava tutti, conosceva tutti, praticava la sua arte sulla scena, allenava la sua arguzia per strada, e fu persino ricevuto a palazzo dalla regina. Intanto la sua straordinariamente dotata sorella, supponiamo, era rimasta a casa. Ella era tanto intraprendente, tanto creativa, tanto impaziente di vedere il mondo quanto lo era il fratello. Ma non fu mandata a scuola. Non ebbe nessuna possibilità di apprendere la grammatica e la logica, tanto meno di leggere Orazio e Virgilio. Ogni tanto prendeva un libro, un libro del fratello forse, e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di rammendare le calze o di badare allo stufato e di non oziare con libri e carte. Le parole sarebbero state dure ma gentili, perché erano persone agiate che conoscevano le condizioni di vita di una donna e amavano la loro figlia; anzi, molto probabilmente ella era la prediletta del padre. Forse scriveva qualche pagina di nascosto su nel sottotetto, ma poi badava bene a nasconderla o bruciarla. Presto, tuttavia, ancora adolescente, dovette essere promessa al figlio di un vicino mercante di lana. Protestò che detestava il matrimonio, e per questo fu duramente picchiata dal padre. Poi egli smise di rimproverarla. La implorò invece di non danneggiarlo, di non disonorarlo a causa del suo matrimonio. Le avrebbe regalato una collana o un bel vestito, le diceva, e i suoi occhi erano pieni di lacrime. Come poteva disubbidirgli? Come poteva spezzargli il cuore? Fu solo la forza del suo talento a spingerla a farlo. Una sera d’estate fece un pacchetto delle sue cose, si calò giù con una corda e prese la strada per Londra. Non aveva neanche diciassette anni. Gli uccelli che cantavano dalla siepe non erano più musicali di lei. Possedeva, come il fratello, il più vivo senso dell’immaginazione per la melodia delle parole. Come lui, aveva un’inclinazione per il teatro. Si presentò all’ingresso degli attori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’impresario, un uomo grasso e impertinente, prese a sghignazzare. Urlò qualcosa sui barboncini che ballano e le donne che recitano; nessuna donna, disse, poteva fare l’attrice. Insinuò invece... lo potete immaginare. Non avrebbe avuto nessuna educazione al mestiere. Poteva addirittura cenare in una taverna o vagare per le strade a mezzanotte? Tuttavia Judith era nata per la letteratura e bramava nutrirsi con abbondanza delle vite degli uomini e delle donne e studiare i loro costumi. Alla fine - poiché era molto giovane, e dal viso stranamente somigliante a Shakespeare il poeta, con gli stessi occhi grigi e la fronte tonda - alla fine Nick Greene, il capocomico, si impietosì; ed ella si ritrovò incinta di quel gentiluomo e allora (chi può misurare la passione e la violenza del cuore del poeta quando è intrappolato e aggrovigliato nel corpo di una donna?) si uccise una sera d’inverno e giace sepolta in un incrocio, dove ora si fermano gli omnibus, davanti ad Elephant and Castle.

Così, grosso modo, narrerebbe la storia, credo, se una donna ai tempi di Shakespeare avesse avuto il genio di Shakespeare. Da parte mia, sono d’accordo con il defunto vescovo, se tale egli era: è impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra i contadini, tra la gente ignorante, servile. Non nacque in Inghilterra al tempo dei sassoni e dei britanni. Non nasce oggi tra le classi operaie. Come, dunque, avrebbe potuto nascere tra donne che cominciavano a lavorare, secondo il professor Trevelyan, quasi da bambine, che vi erano costrette dai genitori e lo accettavano per forza di legge e di tradizione? Eppure un genio di qualche sorta deve essere esistito tra le donne, come deve essere esistito tra le classi operaie. Ogni tanto fiammeggia una Emily Brontë o un Robert Burns, e ne dimostra l’esistenza. Ma certamente non avrà mai intrapreso la carriera letteraria. Quando, comunque, si legge di una strega buttata nel fiume, di una donna posseduta dal demonio, di un’indovina che vende erbe, o persino della madre di un uomo molto importante, allora credo che siamo sulle tracce di una scrittrice mancata, di una poetessa messa a tacere, di qualche muta e oscura Jane Austen, qualche Emily Brontë che si è fracassata il cervello sulla brughiera o andava facendo boccacce per le strade, impazzita per la tortura procuratale dal suo talento. Azzarderei l’ipotesi, infatti, che Anonimo, che ha scritto così tante poesie senza mai recitarle, fosse spesso una donna. Era una donna, credo che fosse Edward Fitzgerald a suggerirlo, che componeva le ballate e le canzoni popolari, cantilenandole sottovoce ai suoi bambini, rallegrandosi mentre filava, o nelle lunghe sere d’inverno.
Questo può essere vero o può essere falso - chi può dirlo? - ma quello che mi sembrava indiscutibile, riandando alla storia della sorella di Shakespeare, da me interamente immaginata, è che qualunque donna che fosse nata nel Cinquecento con un grande talento sarebbe certamente impazzita, o si sarebbe suicidata, o avrebbe finito i suoi giorni in qualche casupola solitaria fuori del villaggio, mezza strega, mezza maga, temuta e derisa. Perché non è necessario essere esperti psicologi per affermare che una ragazza di grande talento che avesse cercato di mettere in pratica la sua inclinazione per la poesia, sarebbe stata così ostacolata e intralciata dagli altri, così torturata e dilaniata dai propri istinti contraddittori, da perdere sicuramente la salute e il giudizio. Nessuna ragazza avrebbe potuto camminare fino a Londra, bussare alla porta di un palcoscenico e farsi largo fino al capocomico, senza fare a se stessa una violenza e patire un’angoscia che, per quanto possano essere state irrazionali (perché la castità potrebbe essere un feticcio inventato da certe società per ragioni sconosciute), erano nondimeno inevitabili. Nella vita di una donna la castità aveva allora, come ha ancora oggi, un’importanza religiosa, e si è così avvolta di nervi e di istinti, che darle la libertà con un taglio e portarla alla luce del giorno richiede un coraggio dei più rari. Vivere una vita libera a Londra nel Cinquecento avrebbe comportato per una donna poeta e drammaturgo una tensione nervosa e un dilemma tali da ucciderla. Se anche fosse sopravvissuta, qualunque cosa avesse scritto sarebbe stata contorta e deforme, essendo il prodotto di un’immaginazione innaturale e morbosa. [...]
Tratto da:
Una stanza tutta per sé (1929) Virginia Wolf A room of one's own

Tratto da Una Stanza Tutta per Sé - 1929 - Virginia Wolf

(Segnalato da Milena Esposito)

Traduzione e cura di Graziella Mistrulli

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