domenica 29 gennaio 2012

Opus de Hominibus

Scheda di Antonio Capano sul libro di

Mauro Montacchiesi, Opus de Hominibus

L’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia in provincia di Catania ci propone la felice edizione di un volume scritto nella collana diretta da Giuseppe Manitta: ‘Opus de hominibus’ di  Mauro Montacchiesi che, vincitore di numerosi premi nel campo letterario, si è ora impegnato, pur senza un apparato di note di riferimento che ci avrebbe offerto un orientamento sugli studi nei settori dibattuti, nella complessa saggistica di un’ampia articolazione tematica.
A colui che  nel volume in trattazione ha  letto saggi che ne attengono la competenza, nello specifico quella dell’antichità, soprattutto nel settore storico ed archeologico, non possono essere sfuggite alcune peculiarità dell’opera , opportunamente messe in risalto nella prefazione del Montacchiesi: la scrupolosità nell’affrontare le tematiche, l’esposizione chiara e lineare , la modenità del linguaggio, l’intento dichiarato di approfondire il pensiero dei vari personaggi trattati,  di penetrare nel significato dei loro atti non senza inquadrarli nei loro tempi e fornire su di essi  un metro di giudizio, se possibile, anche nel confronto con il nostro presente. E’ in questa location che  l’autore pone sul set confronti impossibili ma dal chiaro valore didascalico tra personaggi del mondo antico e contemporaneo che ritroviamo nel dialogo tra Seneca ed i comici Ettore Petrolini ed Edoardo De Filippo sul tema filosofico della vita e della morte o tra un netturbino e Cicerone entro uno spiritoso linguaggio dialettale romanesco che ci fa comprendere che non molto è cambiato tra il mondo attuale del “monnezzaro” ed i tempi di Cicerone. Questi, e l’autore con lui, non  accetta che lavoratori stranieri europei ed extraeuropei stiano per prendere il sopravvento nella società odierna, ma dimentica  che il mondo romano era diventato a seguito delle conquiste un coacervo di popoli che progressivamente presero il sopravvento nelle alte sfere dell’impero, fino a rappresentare gli stessi imperatori.
L’antichità romana vive ancora nell’esperienza quotidiana di Bellomo che, sempre pronto alla battuta, che ci ammoderna il tempo passato,  entra “in medias res”, nel cuore della tematica, offrendoci una ironica riflessione sul suo cognome, ponendo come premessa il detto degli antichi romani: “nomen atque omen”, “il nome stesso è un presagio”; ciò che per lui sa quasi di beffa, essendo alto m. 1,60, calvo e con pancetta.
A Roma, una città che ancora conserva le vestigia e lo spirito della “Caput Mundi”, il nostro autore porta a spasso per l’Appia antica il suo fedele cane che i condomini del palazzo in cui vive con la madre novantenne chiamano Casanova; ed egli non può fare a meno di notare che una cagnetta, una cockerina del condominio, con cui quello ha una relazione si chiama ellenicamente Emerocallide, cioè “Bella di giorno” per la sua dinamica attività.
Scrivere per Bellomo è una esigenza spirituale che lo fa esprimere intensamente e cordialmente come nell’esperienza di terapia di gruppo che gli viene proposta dallo psicoterapeuta, poi amico, Osvaldo, che più di tutti lo conosce, dichiarandogli “ego te intus et in cute novi”: “io ti conoso dentro e nella pelle”, soddisfacendo  l’interesse del nostro Autore per i proverbi e i detti antichi, anche se spesso non ne cita la fonte come in quest’ultimo caso che è da riferirsi alle Satire di  Persio Flacco ( III, v. 30) che ci presenta il difficile paradigma dell’essere umano che non mostra nell’apparenza quello che è veramente. Lo esplicita anche  il detto che aggiungo e che si legge nelle Lettere (125) di San Gerolamo: Intus Nero, foris Cato: Dentro Nerone, fuori Catone, che in fondo ci introduce anche un altro dei temi trattati in questa serata, quello della maschera, che il m ondo etrusco/romano denominava persona.
Quanto ci proviene dall’antichità romana  pone numerose difficoltà  a chi decide di condurre una seria analisi  dei fatti  accaduti, tra cui  la parzialità della conoscenza dei personaggi che sono stati protagonisti di azioni eclatanti, spesso crudeli, che nel caso degli imperatori romani hanno impresso una profonda traccia nel secolo in cui sono vissuti . Gli aspetti della loro vita, che vengono  presi in considerazione dagli osservatori contemporanei, dimostrano spesso  un metro di giudizio che  proviene  dal loro effettivo e personale interesse, che li ha condotti a far parte di un entourage principesco  o ad essere ostacolati o persino perseguitati dagli eredi dell’imperatore.
Gli intrighi di corte, le mire irrefrenabili di potenza di chi era al potere non era oviamente retaggio esclusivo dell’antichità ma sono avvenuti in ogni tempo dell’uomo, basta pensare ad un altro accorato saggio di Bellomo che tratteggia efficacemente il carattere ed i progetti di Filippo IV di Francia, detto i Bello, che si macchiò, tra l’altro, della decimazione di Ebrei , anche se in questo caso non ricordati nel significativo “Giorno della Memoria” che si è celebrao ieri 27 gennaio in ricordo dell’apertura del campo di Auswitz nel 1945, allora , negli anni 1320-1321 ritenuti colpevoli di epidemie di peste, che erano seguiti alla distanza di non molti anni  dalla soppressione nel 1314 dell’Ordine dei Templari ed alla condanna al rogo del loro Gran Maestro Jaques  de Molay al fine di impossessarsi dei loro beni.
Ma il nostro giudizio non può esimersi dal tener conto degli usi e costumi dei tempi in cui sono vissuti e dal principio che Orazio, citato dall’Autore, ci richiama nelle Epistole: “Non meravigliarsi di niente: / questo è forse, Numicio, / il solo, unico principio / che possa rendere felici”.
Se prendiamo ad esempio il saggio su Caligola, per i quale si può richiamare anche una trattazione pubblicata nella rivista “Archeo” del febbraio del 2007,  Bellomo fa propria una esigenza esegetica di stretta attualità ma che già da tempo si è affermata nella storiografia e che può essere ancora  una novità, speriamo, solo per la banalità ed arretratezza di metodo di qualche disinformato divulgatore della storia antica.
Dichiarato è l‘intento dell’autore di enfatizzare quanto di positivo ha compiuto l’imperatore, “intessendo rquisitorie contro i suoi principali accusatori, mettendo in risalto le figure di due imperatori successivi che la moderna storiografia continua a definire in maniera non oggettiva”; ma occorre anche  precisare, io affermo, che l’oggettività non fa parte della storiografia che è interpretazione di fatti e personaggi che non riusciremo mai a comprendere pienamente, non solo per mancanza di fonti complete e di trattazioni antiche di diversi “partiti” (anche quelli politici), come si ribadisce in un saggio su Nerone, apparso su un recentissimo numero di “Archeo”,  ma perché  essi stessi erano guidati da passioni e da ideologie.
Non è fondamentale per una trattazione storica che non sia conosciuto il suo luogo di nascita di Caligola, certamente uno degli accampamenti militari provvisori  costruiti dal padre, il grande e amato  generale Gaio Gulio Cesare Germanico, la cui moglie Agrippina Maggiore era figlia di Giulia, a sua volta figlia di Augusto. Per la sua esperienza nell’esercito romano ebbe il soprannome di Caligola, dal sandalo dei legionari. Fu adottato dallo zio Tiberio perché lo conducesse quale erede designato al soglio imperiale. La sua vita fu costellata di drammi: perse a sette anni il padre probabilmente avvelenato, secondo alcuni storici  da lui stesso. Esiliata da Tiberio la madre ad Ercolano, fu poi adottato dalla affezionatissima bisnonna Livia sul Palatino e dopo la sua morte dalla nonna paterna Antonia Minore, presso la cui casa conoscerà giovani principi di Tracia, cui assegnerà potenti regni e diventerà amico di Lucio Vitellio, il cui figlio Aulo sarà imperatore nel 69 d. C. L’ombroso Tiberio lo accolse quindi nella sua villa di Capri ; ed al nipote, che si mantenne prudente e defilato su consiglio di amici più esperi,  fece ascendere i gradi della carriera religiosa e civile . Morto l’imperatore nel 37 d. C. presso la base della flotta di Miseno, non prima di aver  nominato suo successore anche il nipote Tiberio Gemello, Caligola  diventò per iniziativa del pretoriani il solo Princeps e  fu imperatore a 25 anni, erede della nobile dinastia dei Giulio-Claudii. La sua ascesa fu per tutti l’agognata liberazione dalla dittatura di Tiberio durata ben 23 anni e venne considerata  la rinascita della pax augustea. Con atto di benevolenza adottò il  Tiberio Gemello, nominandolo princeps juventutis e, fedele alla memoria dei membri della famiglia perseguitati da Tiberio , raccolse le ceneri della madre e del fratello portandole con grandi onori a Roma; in memoria di Agrippa celebrò annualmente  solenni ludi circensi, ludi che Tibero aveva molto limitato e che Caligola  promosse  insieme agli spettacoli scenici,  rinviando le vertenze fissate nei giorni di festa; inoltre, volle lo zio Claudio nel consolato. Perseguì l’appoggio del popolo che, come i pretoriani ed i regni vassalli, fu oggetto di abbondanti elargizioni di danaro, ebbe cordiali rapporti con i regnanti stranieri come Artabano, re dei Parti, “alleggerì i dazi – precisa Bellomo – abrogò la tassa sulle compra-vendite e ridette dignità alla magistratura e alle Assemble. Fece bruciare gli atti e le lettere di coloro che avevano partecipato alla rovina dei suoi familiari, ordinò il rientro degli esiliati politici e dette diffusione agli scritti già censurati dal Senato.
Tiberio Gemello, alla fine del 37 d. C., sospettato di aver cospirato contro l’imperatore si tolse la vita, seguito da Silano, suocero di Caligola, e nel 38 da Macrone, prefetto del Pretorio, che aveva pianificato la sua ascesa.
In quell’anno morì la sorella-amante Livia Drusilla, la prima donna ad essere consacrata “Diva”, secondo un modello di dinastia ellenistica confermato dal matrimonio di Tolomeo IX con Cleopatra IV di Egitto.
Nel 39 d. C. si acuirono i contrasti con il Senato che erano stati mantenuti sereni in una prima fase per l’affermazione del potere, e che poi  degeneranno con accuse di ipocrisia, di captatio benevolentiae , e di trame ai suoi danni verso alcuni di essi i cui beni saranno confiscati; nominò il suo cavallo “Incitatus” senatore  attestando che il Senato per il basso profilo raggiunto poteva essere implementato anche dal suo cavallo.
Questi contrasti non gli impedirono di iniziare nel 39 d. C. l’agognata campagna contro la Britannia e i Germani, eliminando prima  il legato della Germania Superio Cornelio Lentulo Getulico, troppo potente, prodigo di  molte concessioni ai suoi soldati a scapito della disciplina ed aveva aderito alla cospirazione di Lepido, cognato di Caligola; lo rincalzò con Galba che sarebbe diventato imperatore. Avrebbe voluto essere acclamato Dio, secondo  le tradizioni orientali ed ellenistica  ed una tendenza al principato assoluto che si sarebbe affermata a partire dal II sec. d. C. ; per questo fu accusato di insania, che per i suoi detrattori  si sarebbe rivelata quando dovendo attendere la primavera  prima di attraversare la Manica  impegnava i soldati nel raccogliere conchiglie in un fiume trasparente.
Ritornato in patria nel 40  e fatto giustiziare Tolomeo sovrano di Mauretania, reo di cospirazione, lo stesso Caligola dopo tre anni di potere venne trucidato nel 41 d. C. a 29 anni con trenta pugnalate da pretoriani mentre si ritirava nel palazzo circa l’una dopo un spettacolo allestito per le feste augustali; venne uccisa anche la moglie Cesonia e sfracellata contro una parete la piccola figlia Drusilla, il che conferma il clima di crudeltà dell’epoca. Il Senato, riunito dai consoli, elencò una lunga sequela di misfatti attribuiti a Caligola, il cui corpo dopo brevi esequie fu bruciato e sepolto nella nuda terra.Fu nominato imperatore l’equivoco zio Claudio che avrebbe assistito all’esito della cospirazione nascosto dietro una tenda. Ma l’intervento del popolo che chiedeva documeni e giustizia costrinse il Senato a far  suicidare i protagonisti dell’assassinio. Svetonio, la fonte più completa su Caligola, appartenente anch’egli agli ambienti di corte,  pose la sua attenzione “su aneddoti piuttosto che su vere azioni, seguendo la tradizione della presunta insania di Caligola. Ma molti documenti dell’epoca, ribadisce Bellomo, attestano la magnificenza del suo operato, la sua sagacia mentale, la capacità della dialettica e della convinzione.
Ma ribadiamo con la serena coscienza di chi ha un po’ navigato nel mare dell’esperienza ciò che leggiamo nel terzo atto del dramma di Camus su Caligola, rappresentato nel ‘44 (1944 non tre anni dopo la morte dell’imperatore): attraverso la preghiera-consacrata a Caligola-Venere, momento centrale della festa, i senatori invocano (diremo insieme a Camus): "Svelaci che la verità di questo mondo è di non possedere alcuna verità…":filosofica deduzione per un mondo che non cambia e di cui occorre soltanto prendere coscienza, non senza una sentita e drammatica distonia cosciente tra il nostro Io e la realtà che ci circonda, nella quale si concretizza il concetto dell’assurdo e dove ci è dato comunque di vivere non passivamente.

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ALESSANDRA PIGLIARU, "IL TEATRO DELL'ASSURDO"

A. Pigliaru, Il Teatro dell'Assurdo: Caligula di Albert Camus, "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_12.htm

Se per Sartre l'Assurdo è la gratuità dell'esistenza, alla quale si può reagire solo con l'auto-inganno della malafede (A.Pigliaru, "Il Teatro dell'Assurdo. Huis Clos di J. P. Sartre ", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm), per Camus l'Assurdo è uno stare sempre presenti a se stessi. La presenza dell'uomo a se stesso comporta che il sentimento dell'Assurdo nasca nello spirito umano in tensione perenne con la sua stessa vita: la frattura dell'uomo con la sua vita è l'essenza della rivolta esistenziale dell'uomo assurdo, rappresentato scenicamente nel dramma camusiano Caligula.
Mentre per J.P. Sartre l'Assurdo è un punto d'arrivo e una realtà da cui fuggire, per Albert Camus l'Assurdo si configura come un punto di partenza. Ne Il Mito di Sisifo Camus rimprovera a tutte le filosofie esistenzialiste di proporre l'evasione: "Con un singolare ragionamento, costoro, partiti dall'assurdo sulle rovine della ragione, in un universo chiuso e limitato all'umano, divinizzano ciò che li schiaccia e trovano una ragione di sperare in ciò che li spoglia" [1].
Per Camus di contro, l'Assurdo sorge nel momento in cui "gli si dà vita", nel momento in cui si mantiene la tensione, straziante e necessaria ad un tempo, tra l'uomo e la sua stessa vita; questa tensione che Camus definisce come "divorzio" lo pone decisamente in antitesi con quanto detto da Sartre [2]. Pur tuttavia Camus si radica nello stesso panorama culturale di Sartre ed erige la sua "struttura di pensiero" su sabbie mobili; mentre però l'uomo sartriano [3] si raggomitola su se stesso, sprofondando nell'abisso di una ragione inconsistente, l'uomo camusiano è teso a ri-trovare se stesso. La nostalgia di unità, la brama d'impossibile è ciò che spinge l'uomo assurdo a valicare i limiti del mondo stesso verso qualcosa di cui neanche egli può dare spiegazione: il "bisogno di senso". Il bisogno di senso trascende il quotidiano e non fa dell'uomo camusiano un rinunciatario.
L'uomo assurdo è ben rappresentato da Caligula, protagonista dell'omonimo dramma camusiano del 1944, rappresentato un anno più tardi dal teatro Hèbertot [4]. Il dramma inizia quando Caligula, caduto in disperazione per la morte di Drusilla, la sua amata, torna a Roma dopo tre giorni di assenza.
"Questo mondo così com'è non è sopportabile. Gli uomini muoiono e non sono felici" [5].
E' la "costante eccezione che è la morte" a porre fine all'Assurdo, quando però si tratta della propria morte; quando invece si tratta della morte degli Altri, noi non possiamo che esserne spettatori. La morte per Camus non è una "possibilità esistenziale" e non dà autenticità alla vita. "Alla luce del destino mortale, appare l'inutilità. Nessuna morale, nessuno sforzo sono giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione" [6]. Pur tuttavia è di fronte all'automatismo di una vita e di un mondo che "perdono di familiarità" che d'improvviso si manifesta il senso dell'Assurdo. La coscienza dell'Assurdo in Caligula è destata proprio dalla morte dell'Altro. Dall'orrore che "viene dal lato matematico dell'avvenimento" [7] si inaugura un nuovo "movimento della coscienza" attraverso il quale Caligula "fonda" quel conflitto perpetuo tra sé e la sua stessa vita.
"…Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l'intera speranza del mondo?…Mettersi d'accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un'esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola." [8]
L'intera speranza del mondo, rappresentata dall'amore per Drusilla, si sfalda e la riconciliazione col mondo non può più esistere; l'uomo assurdo accetta la lotta fra sé e la propria vita, fra sé e il mondo, accetta "la rivolta della carne"; vivere l'Assurdo non è dare un nuovo significato alle cose del mondo ma badare solo alle conseguenze di ciò che accade; ciò che accade si "scioglie" dalle possibili qualificazioni per "immergersi" nell'equivalenza del tutto. Al punto in cui l'Assurdo "prende corpo", Caligula non può più darsi delle ragioni: darsi delle ragioni significherebbe "comprendere il mondo" ma "comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre quello all'umano, imprimergli il proprio suggello" [9]. Con la coscienza dell'Assurdo, il mondo non è più familiare, l'Assurdo non può risolversi e l'uomo non trova più conciliazione col mondo. Il mondo "è messo in dubbio" continuamente. Come si configura la lotta tra l'uomo e la sua vita? "…Tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la rinuncia) e l'insoddisfazione cosciente (che non dev'essere assimilata all'inquietudine giovanile)…L'assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso" [10].
E' nel terzo atto del dramma (Divinità di Caligola) che attraverso la preghiera-consacrata a Caligola-Venere, momento centrale della festa, i "mortali" invocano:
CESONIA. "Insegnaci l'indifferenza che fa rinascere gli amori…" [11]
SENATORI. "Svelaci che la verità di questo mondo è di non possedere alcuna verità…" [12]
CESONIA. "…Dacci le tue passioni senza scopo, i tuoi dolori senza ragione. Le tue gioie senza futuro" [13].
La fedeltà di Caligula all'Assurdo è totale: si trova scampo alla infelicità solo accettandone i termini; "dare vita all'assurdo" allora significa accettare la propria situazione, consapevoli del proprio destino senza speranze. Il destino dell'uomo non è "apertura-verso" ma è "attimalità", un po' come la vita di Dongiovanni o di Meursault in cui tutto si equivale. Ciò che conta non è la "qualità" ma la "quantità": si deve cercare di vivere "il più possibile". Vivere dunque non è ricerca di un senso profondo delle cose (almeno apparentemente) ma "un perpetuo confronto dell'uomo e della sua oscurità" [14]. Caligula però è come se superasse il confronto con la sua oscurità e, proteso verso il tentativo di mediare fra la "brama di assoluto" e la "mancanza di un senso che trascende il mondo", esclama:
CALIGOLA. (con voce seria e stanca) Voglio la luna…(poi dirigendosi verso allospecchio) L'impossibile diventerebbe possibile, e qualsiasi cosa cambierebbe, così, d'un colpo [15].
La brama di assoluto, di quella verità caduta in frantumi, è il desiderio di possedere la luna, simbolo del notturno e dell' "envers". E' importante sottolineare come la luna, rappresentata dalla Dea Iside, discenda dal cielo quando il Lucio apuleiano la invochi come salvatrice [16]. Il culto di Iside, insieme a quello di Osiride, è un culto Egiziano che Caligula (come imperatore storicamente vissuto) aveva, insieme ad altri, promosso nel suo regno [17]; Iside, nel mito, ri-dà vita ad Osiride, il suo sposo, ri-componendo il suo corpo fatto a pezzi. Caligula invocando la luna, invoca quindi il "potere guaritore di Iside", il potere di ri-comporre l'Assoluto frantumatosi (il suo amore, forse?). Ma Caligula non è un dio, e senza essere diventato un dio Caligula "morrà in una notte pesante come il dolore umano" [18]

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[1] A. Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1996, p. 32
[2] Vedi A.Pigliaru, "Il Teatro dell'Assurdo. Huis Clos di J. P. Sartre ", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm. E' importante sottolineare la posizione diametralmente opposta di Camus nei confronti di Sartre, ed è Camus stesso che nel 1945 precisa: "No, non sono un esistenzialista. Sartre ed io ci stupiamo sempre nel vedere associati i nostri due nomi…Sartre ed io abbiamo pubblicato tutti i nostri libri prima di incontrarci, tutti senza eccezione...Sartre è esistenzialista, e il solo libro di pensiero che io abbia pubblicato, Il Mito di Sisifo, è diretto contro i filosofi esistenzialisti". In S. Zoppi, Invito alla lettura di Camus, Mursia, Milano 1980, pp. 28,29.
[3] Precisiamo: quando ci si riferisce all'uomo sartriano, lo si fa utilizzando le categorie dell' Essere e il nulla.
[4] Si prenderà in considerazione la seconda stesura del dramma, quella del 1944 appunto; per la storia della stesura di Caligula si rimanda a A. Camus, Théâtre, récits, nouvelles, pref. di J. Grenier, a cura di R. Quillot, Gallimard, Paris.
[5] A. Camus, Caligula in Tutto il teatrto, cit. p. 56.
[6] A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p. 18.
[7] Ivi
[8] A. Camus, Tutto il teatro, cit. pp. 56, 57.
[9] A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p. 20.
[10] Ibidem, pp. 31, 32.
[11] Ne Il Mito di Sisifo Camus si domanda se si debba accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell'assurdo e risponde: "Il corpo, la tenerezza, la creazione, l'azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo insensato. L'uomo vi ritroverà infine il vino dell'assurdo e il pane dell'indiffernza, di cui nutre la sua grandezza"; cit. p. 49. E ancora:"Per l'uomo assurdo…tutto comincia dall'indifferenza perspicace"; cit. p. 92.
[12] D'accordo con Nietzsche "…Le verità sono illusioni, di cui si è dimenticato che sono tali"; F. Nietzsche, Su verità e menzogna fuori dal senso morale, ed. Filema, cit., p.45. Per quanto riguarda il rapporto Camus-Nietzsche, si veda R. Siena, Nietzsche, Camus e il problema del superamento del nichilismo, sta in "Sapienza", Vol. XXVIII, 1975.
[13] "Che cos'è ifatti l'uomo assurdo? Colui che, senza negarlo, nulla fa per l'eterno"; A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p.
[14] A. Camus, il Mito di Sisifo, cit. p. 50.
[15] A. Camus, Tutto il teatro, cit. pp. 91, 93.
[16] Cfr. Apuleio, Le Metamorfosi o L'asino d'oro, Zanichelli, Bologna 1963, Libro XI, pp. 231 e sgg. Sulle fonti antiche del Caligula di Camus si veda M. Seita, le fonti antiche del Caligula di Camus, sta in "Il Castello di Elsinore", anno XI, 31, 1998; si fa riferimento ad uno studioso, A. J. Clayton, che interpreta il tema dell'astro come "simbolo di profondo rinnovamento"; cit. p. 61.
[17] Cfr. Svetonio, Vita di Caligola, a cura di G. Guastalla, Roma, 1992; pp. 48-50.
[18] M. A. Aimo, Assurdo e rivolta nel teatro di Albert Camus, sta in "Memorie del seminario di Storia della filosofia della facoltà di Magistero", Università di Sassari, 1981.

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