venerdì 20 settembre 2013

“Memorie (Frammenti di vita)” : la recensione di Teresa Apone

Note critiche a “Memorie (Frammenti di vita)”di Michele Di Lieto
A cura  di Teresa Apone



Il titolo mi è piaciuto fin da subito. Forse perché, come docente di lettere, richiama alla memoria romanzi della maturità di autori importanti come le “Mèmoires”di Carlo Goldoni che l’autore cita nella “Premessa”, “Le confessioni di un italiano”di Ippolito Nievo o come l’avvincente capolavoro, “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. Come docente di latino, invece, il testo mi riporta con la mente anche al genere dei “commentarii“ che erano nel mondo antico dei resoconti di guerra. Ad essi si ispira Cesare nel “De bello gallico” e nel ”De bello civili”: l’autore classico crea un genere letterario autonomo, nuovo, in cui alle imprese politiche e personali si intreccia la sua visione della vita,  della politica e della guerra. Alcuni studiosi parlano per queste due opere di “dimensione apologetica, morale e politica” (Mortarino, Reali, Turazza). La stessa linea che, in qualche modo mi pare, anche se in un contesto totalmente diverso, permei il testo di Di Lieto. Il libro, richiama inoltre tutto il filone della narrativa psicologica italiana e straniera che fa capo in Italia ai primi del Novecento a Italo Svevo. Leggendo “Memorie” pare di  evocare reminiscenze  sveviane: Zeno Cosini, io-narrato, Di Lieto, autore, protagonista e quindi, anch’egli io narrato, si mette a nudo con ironia e capacità di fronte a se stesso e ad un interlocutore immaginario, come Zeno Cosini, di fronte  alla finzione del dottor S. Ma questo libro così ricco, poliedrico, moderno nell’impostazione, multiforme nei piani di lettura, è anche un grande romanzo d’amore. L’autore rivisita la sua vita alla luce di un evento che rivoluziona lo status quo: l’incontro con la donna della sua vita, sua moglie.  In questo senso il testo è anche un grande atto d’amore, non solo per Rosy, la moglie, ma anche per tutta la famiglia di lei, incontro e abbraccio nei quali risplende la  luce anche della fede e nei quali tutto acquista un  senso, un significato concreto capace di reinterpretare e illuminare tutta l’esperienza di vita del protagonista, la rivisitazione del suo passato e della sua famiglia. Per Dante e gli stilnovisti l’amore si colorava dell’esperienza salvifica, era processo di maturazione indispensabile, rivoluzionario che trascina l’uomo di fronte a se stesso, al mondo, nel tentativo di migliorarlo. Lo stesso potere radicale che ha qui l’esperienza d’amore: rimodellante, rigeneratrice, determinante. C’è anche un senso di solitudine che traspare, talvolta, tra queste pagine, è quella del protagonista, che ad un certo punto scopre, in fondo, di non avere amici, amici veri. È questo il dramma dell’uomo moderno che ha qualcosa di diverso e in più rispetto agli altri. Forse, proprio per questo, paradossalmente, non riesce a comunicare con gli altri, vivendo la sua vita, in fondo, in solitudine. La complessità dell’autore, però, si sublima e trova voce in un linguaggio semplice, agevole, ironico, interlocutorio, linguaggio che funge da alter ego e in cui si ricompone l’armonia e la frattura dell’uomo (Petrarca, ante litteram, in questo senso, docet). Moderno è anche l’impianto strutturale dell’opera, moderno il frammento che trova luogo nell’archeologia globale enella visione esistenziale dell’autore che però, a differenza degli eroi-protagonisti moderni e decadenti, pare trovare soluzione alla sua vita, attraverso la scrittura e l’amore.
Non c’è solo modernità in questo romanzo: esso è profondamente intriso anche di classicità. I due piani si fondono in una visione ancora armonica e suggestiva. Nel quinto capitolo riecheggiano immagini e sapori virgiliani: il mondo contadino e la natura concepiti come mondo di valori perduti, sani, eterni. Mito, bellezza, amenità, ma anche lavoro, fatica sono i temi  dominanti della poesia bucolica virgiliana.
Nel capitolo cinque Il mito, l’ulivo, simbolo della nostra terra, è  meraviglia e allo stesso tempo fatica (l’olio): il mondo agreste di Virgilio si confonde con il lavoro dei nostri contadini, della nostra realtà. A questo mondo di valori perduto e ormai scomparso l’autore sembra guardare con nostalgia così come il poeta latino. Ma classicità è anche l’immenso amore per il latino e il greco che direi quasi trabocca in questo testo, per il diritto (anche se qui la questione si fa più controversa). La classicità rappresenta una costante che contraddistingue e caratterizza tutta l’autobiografia.
Classicità e modernità, non solo. Questo è anche un libro di grandi passioni. E la più alta, la più intrigante è la politica. Il capitolo quattordici (Dino) è forse uno dei più riusciti del romanzo. Qui l’autore tocca il cuore con scene quasi cinematografiche che rievocano il lirismo di Vittorini in “Conversazione in Sicilia”. Il treno dei bambini- migranti richiama alla mente la catena umana di Siracusa di quest’estate. Il personaggio “Dino” sembra essere vivo, reale degno protagonista di un film di Rossellini.
E c’è un filo sottile che filtra tutti gli avvenimenti: l’ironia dell’autore degna dei grandi della letteratura. Ironia, altra costante anche dello stile, del linguaggio. Talvolta essa diventa comicità, autoironia, divertimento che si trasmette al lettore come nel capitolo dodici dedicato alla televisione o quello dedicato a Nora.
E poi c‘è la Storia, quella vera, universale che s’intreccia alla vicenda biografica e su cui la biografia pare innestarsi. Solo che a differenza del romanzo storico classico, qui l’aggancio tra vicenda personale e storia è più sinuoso e moderno, nel senso che la storia RICORRE, ma non fa da sfondo come nel romanzo storico classico. Anche questo nuovo modo di rapportarsi alla storia è originale, personale. E poi c’è l’arte, il surrealismo, Kerouac: il trait d’union è sempre Rosy più terapeutica dei sedativi usati troppo presto (capitolo diciassette). Rosy angelo salvifico:”Rosy sarà per me l’Angel del Signore”, in lei si dilegua anche la paura più atroce e definitiva: la morte. Uno stralcio intenso, direi commovente, è quello sulle paure a pagina centotrentaquattro. ”Tornano, insomma, le mie paure… Paura degli altri… paura della fine… Mi sorprendo… a cercare l’indirizzo di una casa ostello….” Sette - otto righi straordinari: c’è tutto, ci siamo tutti noi!
Ma c’è tant’altro. Tradizione e innovazione. Tenera e straordinaria è la descrizione della famiglia, delle feste dei patroni e dell’episodio di Betsy nel capitolo venticinque. Allegre, goliardiche le pagine relative allo sport, alla radio. La varietà è un altro punto di forza del romanzo tra il piano della ”leggerezza”per citare Calvino e quello più apertamente didascalico, morale, riflessivo.
 Infine, c‘è il Cilento, la “seconda e la terza vita” a fare da alter ego al passato, all’infanzia, ai baci mai visti e mai dati, alla costiera amalfitana. Questi due ambienti, questi due squarci, queste due costiere che si rincorrono dirimpetto racchiudono lo tutto spazio, lo scenario degli affetti… della vita.
Infine, mi piace ricorrere a Gadamer: alla rete di testi che si crea attorno ad un testo (quando è valido naturalmente). Alla rete di lettori e interpretazioni che crea il miracolo della lettura. Di Lieto ci è riuscito catturando anche me e creando, come i grandi autori, attorno al suo libro, una comunità, una famiglia in cui questo libro riecheggia e vive come nella combinazione dei vasi comunicanti in cui lettore e autore si mescolano,  si rincorrono, si fondono, si riconoscono.


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