venerdì 9 maggio 2014

I RACCONTI DI VENERdì - Monica Fiorentino



Monica

Autrice: Monica Fiorentino

(tratto da _lagrudallelungheali)

Lettera 21. L’aveva amato, tanto. Completamente. Totalmente. Li amava entrambi, incondizionatamente. I suoi due amori. Loro. Quella mano che aveva tenuto salda la sua, per guidarla: lui. Quella manina che lei aveva tenuto premuta al suo seno: la loro bambina. Tutti avevano sempre detto di lei che era una donna forte, e forte si sentiva. Si era sempre sentita. Libera e forte, come una roccia. Amore non è sinonimo di fragilità, né di debolezza, se questo amore è amore, se ha radici “sane”, aveva sempre sottolineato lei stessa, crescendo in quel totale, limpido, forte, coraggioso abbandono. Scrivendone nelle sue poesie. Scrivere è un mestiere liberatorio, affatto facile, rende custodi delle parole, ne rende responsabili, e impone di prendersene cura. Questo lei lo aveva sempre saputo. Di quella donna semplice e minuta, lui, il soldato e l’uomo, aveva amato tutto, sin da subito. Continuava a farlo, incessantemente, a prescindere. Talvolta per prenderla in giro le diceva che di lei, di primo acchito si era innamorato della voce, poi erano venute le lunghe gambe. Monica, la sua Monica.
In quell’istante lei soffiò un altro haiku al cielo, oltre la luna, più lontano ancora, in alto; fra le trame della notte, oltre la guerra, il lamento dell’artiglieria, quel sentore marcio di corpi in putrefazione, messi a marcire per le strade insieme ai vivi, tranciati dalle loro membra ancora calde, fra il puzzo di piscio stagnante, le grida di tormento e il giogo della violenza, nelle sopraffazioni di ventri vergini ad essere squarciati. Affidando in punta di piedi, quella sua piccola poesia all’eterno.  In alto, laddove un aviatore aveva scritto di principi, volpi, deserti, rose e serpenti, riponendola nell’attesa, affinché un giorno venisse ri-trovata, dopo di lei; e nel carezzarla distrattamente, quella mano, sfiorandola fra le pagine del cielo, avesse potuto sorridere di nuovo, ancora, almeno un’altra volta. L’amore è qualcosa che ha a che fare con l’attesa, in qualche modo lei ne era sempre stata certa. Come era sicura della persona che avrebbe trovato quel suo haiku. L’aveva composto nella sua mente pensando a lui, quel giorno di luglio,  durante la sua ennesima notte di assenza, dopo che la loro splendida bambina si era finalmente addormentata, e prima o poi, non aveva dubbi, l’avrebbe ri-trovato lì.
Ri-recitandolo a labbra serrate, ne contò in testa le sillabe, attenta, soffiandolo verso il cielo, puntando in alto, il più in alto possibile, affidando al tempo la sua confessione, la sua promessa, la sua risposta, il suo divenire: Post Scriptum col rosso del cuore Ps. Ti amo / S’apre all’orizzonte/ l’arcobaleno. Dritta dinanzi a quel pianoforte bianco, dove lui, il soldato, il marito, l’uomo, il padre, soleva suonare di sera per le sue due donne; perdendo completamente Monica i propri occhi nel contemplare quella lunga rosa dai petali scarlatti, ancora viva e vibrante, nel suo bicchiere colmo d’acqua sistemata al centro del ripiano laccato dell’imponente strumento; la rosa che lui le aveva donato dopo la passione, baciandole la fronte, stretta al suo petto, la loro ultima notte, e a cui lei aveva dato il nome di “Godot”,  la splendida Godot dalle vesti di seta, si era sorpresa a sorridere nuovamente, fuggendo di colpo in un unico volo di farfalle a ridisegnarle la tempia sinistra, addormentandola in un rivolo di vernice rossa dall’odore acre di corpo umano, verso dopo verso, nell’infrangersi violento del rinculo ben assestato del fucile, a incalzare perfetto, bevendo di lei anima e carne, inzuppandole i capelli, colandole a chiazze informi sulla gonna, inzaccherandole di cervella gli stivali, piegandola per sempre su quel pavimento fetido, sudario di un supplizio chiamato: guerra, lasciandola scivolare in ginocchio, posta in estatica posa.

 “... e le sue dita tremanti, presero a carezzare quelle piume, la veste blu di quelle lunghe ali incassate nella carne, all’altezza delle scapole, morbide, delicate, eteree, affondandovi dentro i polpastrelli per saggiarne il velluto, chinandosi a poggiarvi di riflesso le labbra; e a quel tocco lui chiuse gli occhi - quel luccichio viola di lacrime - muto, ascoltando il discorrere del cuore di lei con la sua anima.”

Da una parte la luce, l’energia positiva e costruttiva della sensibilità artistica; dall’altra, tutto l’orrore dell’odio cieco e ottuso. Monica Fiorentino continua a indagare con efficacia un dualismo, una contrapposizione che ha da sempre segnato la storia dell’uomo. A leggere i suoi racconti, viene da ribadire ancora una volta che dovremmo dar voce sempre più agli artisti, per renderci davvero conto della profonda stupidità dell’odio in tutte le sue forme. Fino a  quando, invece, ascolteremo politici ed economisti, le loro “ragioni”, la distruzione avrà sempre la meglio.
Monica Fiorentino ci dice anche che c’è qualcosa di altrettanto concreto, altrettanto valido, di ciò che cade immediatamente sotto i nostri sensi. L’artista non vuole edulcorare, stemperare gli orrori della guerra, e le sue sono visioni che dovremmo tener ben presenti, quando si fa avanti qualche “grande uomo” che ci parla di “guerre necessarie”. Oltre queste ottusità, possiamo lasciarci guidare dal segno, dalla nota, dalla visione dipinta o plasmata: in una parola, dall’arte.
    

Della stessa autrice: Sofia 

Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it


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