venerdì 8 agosto 2014

I RACCONTI DI VENER dì - Monica Fiorentino



Post Scriptum

Autrice: Monica Fiorentino

Lettera 21. 

“Caro Leo,
questo cielo stanotte ha il silenzio della pace, fuochi di luna invadono l’orizzonte, riempiendolo di luce, di magia, non s’odono bombe in lontananza, deflagrazioni a farci fuggire, infonderci il terrore e spingerci alla resa, distesa sul letto annoto ai margini del mio quaderno nuovi haiku, e mi sembra tutto bellissimo, perfetto, c’è vento tiepido, le finestre sono spalancate, le cicale diffondono instancabili le loro melodie così impetuose, e le lucciole fanno capolino dai cespugli, timide, come piacerebbero anche a te, come quella notte, ricordi, prima che tu partissi?”
I lunghi capelli raccolti in una morbida treccia, Brenda scriveva adagio.
“Sulla sedia accanto al letto ho sempre quel cappello di paglia, quello col nastro rosso e blu che tu adori, non riesco a separarmene. Mi piace guardarlo, mi ricorda quando insieme si andava al mare, la sabbia a contatto coi piedi, il calore, le gambe a correre, veloci, la pelle salata, quando ci si immergeva fra le onde, il primo gelido impatto a farci trasalire, le urla, la gioia, le corse sfrenate, il sole a baciarci i capelli, le braccia in alto, la gente intorno a ridere e scherzare, i tuffi, l’odore buono delle melanzane, pomodori e basilico che qualcuno aveva sempre nel sacco della colazione. I tuoi occhi a sorridermi, la bocca a spalancarsi fra il freddo dei flutti in una solo O di stupore. L’odore del mare.
Mi piace pensarti così, con quel tuo petto glabro, le gambe sottili, le braccia lunghe, grondante d’acqua, col costume incollato addosso che mi rincorri, mi fai venir paura, io che grido. Sabbia e sole, la confusione degli abbracci stretti. Stasera questa gamba che non ho più mi fa un male pazzesco, e so bene che è impossibile, che con ogni probabilità si tratta solo di quella che tutti chiamano “la sindrome dell’arto fantasma” da cui i medici mi hanno già messo in guardia, e le infermiere mi hanno istruito come tenere a bada. Eppure mi fa male, amputata fino alla coscia so di non averla più, ma è come facesse male nello stesso identico modo di quella notte, quella maledetta notte quando d’improvviso quell’ordigno mi scoppiò fra gonna e petto, facendomi saltare come una bambola di pezza inerme. Mine antiuomo le chiamano nel gergo bellico, trappole disumane le ho ri-nominate io, ogniqualvolta mi riporto le mani al moncone tranciato di netto, ricucito ad arte. Quella notte Leo, ti giuro stavo semplicemente tornando a casa, era così tardi, avevo finito di lavorare due ore dopo il solito ed avevo solo una gran voglia di infilarmi a letto, freddo gelido e desiderio di tepore, mi sarei fermata a scriverti due righe come sempre, ci avrei appuntato vicino qualche haiku, come faccio di solito, sperando un giorno di farteli leggere tutti e pubblicarli insieme, poi mi sarei addormentata. Volevo solo scrivere due righe ed addormentarmi, Leo. Ma di colpo, svoltata la traversa della piazza maggiore quella esplosione: urla, lacrime, strepiti, carne umana a divenire macello, ventri di donna, gole, schiene d’uomini, dita, pianti di bambini e la mia gamba a divenire fluida, morbida gomma, calda,  tranciarsi dalla carne, sciogliersi in un grumo di sangue e ossa spezzate, liquefarsi lenta in un solo grido di dolore, il mio, a stroncarmi l’anima e ridurmi una larva sbattuta al suolo, contro il cemento bollente. Non so bene quanto sia durata quell’agonia, la mente tende per difesa naturale a cancellare eventi troppo tragici ed infatti credo di non ricordare poi molto e soprattutto non ricordarlo lucidamente, solo fetore di carne bruciata,  altra gente attorno, accomunata dal mio stesso destino di dolore, ustioni, sangue, vene scoppiate, liquido, tanto liquido, la mia pelle a sciogliersi, colla pastosa e bruciata, viva per miracolo.
“L'ululato del lupo non ha eco poiché i lupi cacciano in branco, la comunicazione a lunga distanza è fondamentale per la buona riuscita della caccia. Dato che questi animali cacciano per lo più in zone di montagna dove gli ululati sarebbero vulnerabili alle distorsioni dell’eco, essi ululano a una frequenza che non ha eco. I lupi riescono così a localizzare esattamente i loro compagni di caccia e a stanare le prede colte di sorpresa.” Non c’entra molto, ma fa male, Leo, questa gamba mi fa male, e il mio voler urlare, mi ricorda l’ululato dei lupi, chissà se il dolore, quando è così profondo da spaccare anche ciò che è stato costruito dalla mano del cielo, muore allo stesso identico modo, senza eco. Eppure di rimando mi viene da ridere Leo, tu somigli così tanto  ad un lupo e come tale mi sembra di ri-vederti ora, di nuovo, ancora, pronto, in piedi vicino a questa seggiola a porgermi quel cappello di paglia e intimarmi di seguirti in spiaggia.
Sembri un lupo Leo, lo sei sempre parso, selvatico, fiero, solitario, duro, le tue braccia somigliano alle ali di un falco, il tuo viso regale, il collo, il tuo petto, piume brunite, uno splendido falco in volo a librarsi sul creato intero.
Quella notte, l’ultima, dopo l’amore mi hai detto che appena tornato avremmo pubblicato questo libro di haiku, perché il mondo non dimenticasse la poesia, nel frattempo mi hai chiesto di scegliere un bel titolo “Ora devo partire coi miei “radiati”, Brenda, perché la guerra ha fatto il mio nome ed io non posso mostrarmi sordo al suo richiamo, perché ci sia pace nuovamente! Ma tornerò presto, e l’aria avrà ancora il sapore della poesia!” e stretto in quella mimetica sei volato via. Mi fa male questa gamba Leo, tantissimo. 
“Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde” lo ricordi vero? è “Castelli di rabbia” di Alessandro Baricco, insieme lo amavamo “C'è sempre un piano preciso, dietro a tutto... in questo aveva ragione il signor Rail... ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no.”
Sollevò la testa dal quaderno la ragazza, posando la mano dove il moncone della gamba finiva lasciando il niente.
Ingorde_ /le nostre bocche a cercarsi /di nuovo, ancora. Segnò ai bordi l’ennesimo haiku, sentendo in quelle parole Leo più vicino, carezzarle quella gamba mutilata, invitandola al riposo, nivea allodola senza più un’ala.
Mentre il vento proveniente dalla finestra aperta, faceva frusciare le pagine della sua moleskine, spargendone il canto.
“E un angelo di lontano serrava i suoi occhi viola, due braci di dolore acceso, chiudendosi nelle sue morbide piume a coprirgli il petto”

Nella scrittura di Monica Fiorentino trovano spazio le infinite sfumature delle emozioni, richiamate da più punti di vista. I sentimenti di odio che guidano i popoli sono corali, ovviamente, quando scoppia una guerra, e per contrapporsi efficacemente ad essi è necessaria una “coralità dell’amore”.  La parola data alle varie persone coinvolte, in questa serie di racconti, rafforza enormemente la voce della pace, e va a contestare anche la voce della politica, per la quale la guerra che scoppia è sempre necessaria.
La "voce/scrittura" di Monica Fiorentino ci fa invece notare – e dovrebbe essere ovvio, dopo un’infinità di secoli di prove più che evidenti – che l’unico potere della guerra è quello della distruzione cieca e assurda su entrambi i fronti. È inutile ribadirlo ancora con le parole altisonanti delle “istituzioni ufficiali”, evidentemente inefficaci, occorre invece la voce – alta, forte e intima al tempo stesso – dell’artista.

Della stessa autrice: Orfeo

Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it

Scrivi racconti brevi? Questo è il concorso giusto per te. Leggi il bando del concorso

Per le tue poesie c’è Lunedì Poesia


Nessun commento:

Posta un commento