“Ho conosciuto un angelo che si chiama Godot”
Autrice: Monica Fiorentino
Lettera 21.
Abbassando lo sguardo, oltre il posarsi
lieve della neve dietro i vetri della finestra, a ricoprire di bianco intorno,
Nausicaa si morse il labbro, nel buio della sua stanza, un tavolo e due sedie,
svegliata di soprassalto dalle potenti raffiche di vento, credendo fosse stata
la mano di qualcuno a bussare alla sua porta, accorgendosi invece, di quanto
fosse in realtà stata soltanto l’inclemenza del tempo ad aver lavorato con la
sua fervida immaginazione.
A quell’ora la città dormiva un sonno
ovattato, i mortai spenti, un breve cessate il fuoco dettato più dall’esigenza
meteorologica, che da quella fisica dei soldati, la guerra in quelle strade non
conosceva che brevi, sporadici, attimi di tregua, tutti l’avevano imparato
sulla loro pelle. Terribilmente.
Seduta sul letto, i piedi scalzi, i
capelli arruffati, perdendo gli occhi intorno, godendosi il silenzio, la
giovane si sorprese a sorridere, riconoscendo sul tavolo delle poesie scritte
da lui, la cui grafia irregolare le sembrava di poter riconoscere e leggere
benissimo anche nella penombra.
Serrando le palpebre, le parve di udire
la voce cristallina di Mattia intonare ancora quella canzone, accompagnandola
col suono della sua chitarra, quelle corde a divenire musica, anima, cuore, il
suo stesso battito.
Le sembrava di rivederlo, il suo soldato
Mattia, seduto sul pavimento del proprio appartamento, pochi metri quadri e
tutto un disordine. Il giorno in cui le aveva svelato di scrivere, pioveva,
loro due si erano baciati fino a non avere più fiato, nei vicoli, lungo i
marciapiedi, incuranti degli sguardi altrui, di quell’ombrello tenuto di
sbieco, finché giunti sulla porta di quello che era il monolocale dato a lui
dall’Esercito, i loro sguardi non avevano resistito, e le loro mani si erano
cercate in sincrono, tremanti di paura e voglia.
Avevano fatto l’amore a luci spente,
finché la carne aveva cominciato a far male e l’anima era divenuta una
soltanto, persa nel cielo. Nudi, dopo la passione avevano bevuto latte caldo e
miele. Oltre quel gelo che la guerra portava per le strade e nei cuori. Poi lui
con addosso solo i pantaloni della mimetica, aveva imbracciato quella chitarra
e le aveva fatto conoscere la sua casa insieme alla sua musica, sottovoce, di
notte, sfiorando le corde appena, come aveva imparato a fare dopo un giorno
pieno di spasmi a lacerargli i timpani e strappargli la mente, confidandole di
scrivere da sempre poesie e canzoni “Ho conosciuto un angelo che si chiama
Godot/l’ho visto di notte tirar fuori dalle macerie/un fiore di margherita/per regalarlo
al suo amore/segno d’eterna promessa/Il suo amore era il cielo/e d’azzurro s’è
vestita quella promessa/di bianca luce e oro/semplice/grande ricchezza…”
l’aveva scritta lui, l’uomo ed il soldato, amavano comporre musica e poesia,
sopra le macerie di quel mondo in lotta perenne, sul fetore dei crani
fracassati, le anime della gente in cerca ancora d’eternità, in quello scenario
che non poteva più chiamarsi col sacro nome di vita, laddove i cecchini
attendevano per giustiziarle, donne, con in grembo ancora il seme del proprio
uomo a fiorire.
Lei aveva conosciuto Mattia durante una
di quelle notti di ghiaccio e morte, quando uscita dal suo lavoro, era stata
fermata da un manipolo di uomini in uniforme con addosso armi cariche bene in
vista, a chiederle i documenti, sbarrandole la strada; e lei, lupa selvatica,
allodola dal ventre morbido, si era fatta avanti inghiottendo la paura,
cercando con la sola forza delle parole, la ragione di quel subdolo
comportamento. Ma a ben poco sarebbe servito il suo coraggio, se il
provvidenziale avvento del giovane non fosse venuto a mettere rodine, angelo
venuto dal buio, ombra fantasma, spirito e luce.
Nel ringraziarlo, Nausicaa gli aveva
permesso di accompagnarla, e da quel giorno avevano preso a vedersi, anche solo
per un semplice saluto.
Lei amava i libri, lui la musica,
entrambi la poesia e di questo avevano preso a fare il loro tesoro ogni giorno,
regalandosi la gioia della vita.
Lei gli aveva parlato degli haiku,
quella poesia di tre versi, che aveva imparato a comporre prima che la guerra
decimasse la sua famiglia ed i suoi sogni, facendo crollare le Università,
riducendole in pietre sparse.
Li aveva nascosti tutti, i suoi haiku,
ri-copiandoli in un quaderno che sognava un giorno di poter pubblicare. Lui,
forte, pettirosso dalle ali di neve, passero d’inverno nato di dicembre, le
aveva parlato della sua chitarra, delle sue canzoni, di Godot: l’angelo venuto
fuori dai romanzi che aveva letto e la battaglia che viveva sulla propria carne
ogni giorno, del Baricco che amava. “Sono qui perché se mi arrendo questa volta
mi arrenderò tutta la vita!...Stupendo!”. Costruendo così la loro intimità, e
il loro reciproco desiderio di pace e di amore.
In quel momento, Nausicaa, carezzando
adagio quelle coperte grezze, si domandò dove fosse lui, ascoltando la neve nel
suo passaggio. Mattia era in missione ormai da giorni, e si chiese se mai la
guerra sarebbe finita, se loro due avessero, un giorno, fatto ancora all’amore, e se in quel momento
lei avrebbe trovato ancora più cicatrici sul suo petto, e nei suoi begli occhi
viola ancora più dolore e agonia. E se mai un domani l’assordante frastuono dei
fucili, sarebbe stato sostituito dalla musica di quella canzone “Ho conosciuto
un angelo che si chiama Godot”. Segnò nella sua mente uno haiku, Verrà la tua
bocca_/a rovistare i miei giorni/di malinconia con l’intento di trascriverlo.
Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it
“L’amore ai tempi della guerra”, potrebbe essere
questo il sottotitolo del nuovo racconto di Monica Fiorentino. Un amore che inevitabilmente porta con sé anche
il sapore della disperazione, perché non può non essere intaccato dal senso di
distruzione che tutto permane e tutto sovrasta, anche nei rari momenti di calma
apparente.
Monica
Fiorentino continua a sottolineare
un altro aspetto particolarmente importante: anche in mezzo alla distruzione
più cieca, se qualche passione ci guida, possiamo continuare a sperare, ad
andare avanti, a vedere un “oltre” altrimenti impossibile.
“Ho conosciuto un angelo che si chiama Godot” è
scritto in modo magistrale, tra rimandi e particolari, tra “brevi scritture” e
pensieri sospesi. A ricordarci che nemmeno l’odio più feroce può distruggere
tutta la vita. Qualcosa rimane, sempre, seme dal quale germinerà la nuova pace.
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