venerdì 10 marzo 2017

I RACCONTI DI VENERdì - Elisabetta Mattioli


Roma Termini

Veronica si era comportata al contrario (dal punto di vista lavorativo): era nata in un piccolo paese situato nella pianura padana, aveva studiato marketing e frequentato un master a Londra. Una volta tornata in Italia, era andata a lavorare in una Multinazionale impegnata nel settore ambientale, con sede a Milano. Però, alla prima occasione, aveva richiesto il trasferimento nella Capitale. Tornava a casa sua per le feste comandate e qualche fine settimana. Era solita andare a trovare i genitori ogni quarantacinque giorni, presentandosi con un numero imprecisato di regali. Le piaceva fare shopping, spendeva parecchi euro e come era solita ripetere “Le commesse dei negozi in Via Condotti mi amano da impazzire.”
Veronica amava poco la città che l’aveva vista nascere, per vari motivi: aveva perso tutti gli amici, era sola come un cane, trascorreva i week end in casa a leggere un libro. La vita sociale era ridotta al minimo, di conseguenza non fu un sacrificio andare a vivere nella “città eterna”, che amò terribilmente al primo sguardo. All’inizio affittò un minuscolo appartamento in un residence, ma ben presto comprese che doveva avere una casa decente. Si recò in un’agenzia immobiliare e in tre mesi trovò il “nido dei suoi sogni”. Era un grazioso loft, ristrutturato dal vecchio proprietario e situato in un palazzo del Settecento.
Adorò subito quelle “antiche mura”, l’arredò in breve tempo con mobili moderni, ma acquistò anche un comò ottocentesco, che mise nell’ingresso.
Sul ripiano superiore appoggiò la foto dell’amata nonna, morta quando lei aveva diciannove anni. Lei non aveva mai gradito le “diavolerie moderne”: se l’avesse messa sopra al tavolino in vetro e ferro, gliela avrebbe fatta pagare con un spiacevole scherzo, proveniente dall’aldilà.
Veronica aveva voluto tanto bene all’anziana donna, era stata una seconda mamma e quando morì, per lei fu un colpo durissimo da masticare. All’epoca, il trasferimento a Roma rappresentò una boccata di aria fresca. In realtà non aveva amici, lavorava tantissimo e frequentava poco i locali notturni, ma con il passare del tempo scoprì un metodo infallibile per “uscire”. Era una serata “obbligatoria” e la rendeva felice: fece un abbonamento a teatro, gli spettacoli iniziavano ad ottobre e terminavano a maggio.
Per lei era un periodo triste, perché da un momento all’altro cessavano le uscite, in alcune occasioni ne approfittava e ripartiva verso Milano. Quando tornava da babbo e mamma, portava molti regali. La merce variava parecchio: capi d’abbigliamento, piccoli oggetti d’arredo, utensili per la casa, accessori vari e gioielli. I commercianti l’apprezzavano, ma lei sapeva che era una recita, l’accoglievano con affetto, perché spendeva anche mille euro in un colpo solo. Non era una sprecona, ma quegli oggetti le donavano una “falsa compagnia”.
Oppure, nei fine settimana si rinchiudeva nel suo delizioso loft, scivolava sotto le coperte e leggeva un buon libro. Veronica era amata dai librai, perché ne acquistava almeno tre in una settimana. Non aveva un genere definito, “divorava” letteralmente la carta, era una consumatrice di libri, per lei era impossibile poterne fare a meno. Purtroppo non aveva instaurato un rapporto amichevole con le colleghe, pativa una solitudine profonda, ma non l’avrebbe mai ammesso. In azienda era un capo, comandava quaranta donne, alcune le aveva apostrofate con il termine di “sgallettate”, le definiva troppo sciocche e superficiali per considerarle delle papabili amiche, così trascorreva il tempo libero a leggere tomi oppure andava a vedere qualche mostra, nella città eterna non mancavano certamente le occasioni.
Infine (si fa per dire), l’ultima passione era rappresentata dai viaggi. La nostra protagonista si vantava poco, ma aveva visto mezzo mondo: ogni tanto ripeteva alla sua stessa anima, che se un giorno fosse mai partita per il viaggio di nozze, sarebbe andata in Polinesia.
La vita di Veronica andò avanti con questa “piacevole” quotidianità, fino al momento in cui ricevette una telefonata: era sua madre e l’esortava a tornare a casa per il primo week end di maggio, perché una delle cugine di quinto grado convolava a nozze. All’inizio nemmeno ci voleva andare, ma alla fine dovette cedere: l’idea che i parenti sottolineassero il suo stato di “donna zitella” lo sopportava malamente, ma le scocciava dare un dispiacere alla madre, così tre giorni prima dell’evento si recò nel suo negozio preferito e acquistò uno splendido abito.
Il giorno della partenza si presentò alla “Stazione Termini” con indosso la “tenuta da viaggio” (una tuta blu scuro). Attese la Frecciarossa appoggiata contro una colonna, teneva lo sguardo perso nel vuoto ed era molto triste. Mentre aspettava, fu urtata da un “corpo estraneo”.
Veronica si voltò di scatto, fissò gli occhi cerulei dell’uomo e “saltò” il matrimonio della cugina, senza nemmeno avvertire la diretta interessata.

 Elisabetta Mattioli tratta con leggerezza e delicatezza, in “Roma Termini”, il tema della solitudine ai nostri tempi: anni di “iper-tecnologie”che ci avvicinano ad un  numero potenzialmente infinito di nuovi contatti, ma non occorre mai dimenticare che sii tratta di una conoscenza inevitabilmente superficiale, in quanto monca di aspetti fondamentali che solo con il “viso a viso” è possibile condividere.
Veronica è tratteggiata  in modo molto realistico e perciò efficace. Non è facile costruire in un racconto breve un ritratto credibile di una persona complessa, dalla personalità ricca di sfumature, ma Elisabetta Mattioli c’è riuscita con sicurezza e bravura, offrendoci l’ennesimo racconto tutto da godere.

Per contattare l’autrice:  elyamatty@gmail.com

Della stessa autrice: Il gufo ballerino

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