giovedì 14 settembre 2017

"Graffiti" di Carmine Rossi Vairo: la recensione di Luciana Capo




Ecco la recensione che la Professoressa Luciana Capo ha dedicato alla raccolta di racconti “Graffiti” di Carmine Rossi Vairo, presentata la scorsa settimana presso il Castello medievale di Agropoli, nell'ambito della Rassegna del “Settembre Culturale”.
Vi ricordiamo che i libri di Carmine Rossi Vairo sono sempre in vendita presso la libreria indipendente "L'ARGOLIBRO" ad Agropoli, in Viale Lazio 16 - Zona sud, adiacente Via Salvo D'Acquisto, nei pressi del Centro per l'Impiego. Infoline: 3395876415.
Grazie di cuore alla Professoressa Luciana Capo!

La preziosità dell’opera di Carmine Rossi Vairo, Graffiti, è l’originarietà del linguaggio che si rivela nel fatto di non concludersi in ciò che è detto.
“Dicendo” , il linguaggio dello scrittore, nomina “la taverna che sembra unica , una spiaggia deserta che sembra nera, un mare infinito che sembra azzurro”; egli non applica parole, ma chiama entro la parola e così riduce le distanze, crea intimità, tiene presso di sé le cose e le trattiene nella presenza che serba intatta l’assenza. Ed è la seduzione, col suo destino ineluttabile, che non appartiene mai alla sfera della natura, ma a quella del segno e del rituale.
Lo scrittore definisce il piacere “caldo e rarefatto, impetuoso e sudato, violento, carnale” e su tutto aleggia il potere della vertigine e dell’ebbrezza. Il profumo della pantera non è forse un baratro a cui gli animali si avvicinano per provare l’ebbrezza della vertigine? Sedurre significa render fragili e noi seduciamo con la nostra vulnerabilità, con il vuoto che incombe su di noi. L’effetto prismatico della seduzione consiste nell’esserci / nel non esserci, assicurando una sorta di lampeggiamento intermittente di dispositivo ipnotico che cristallizza l’attenzione e fa scintillare tutti i rapporti.
Come quello con Vivienne, immediato, forse un abbandono passeggero, casuale, pieno di nonsense.
“Se ci penso, Vivienne, mi chiedo se davvero volevi soltanto compiacere l’occasionale compagno di una sera o se non era piuttosto il bisogno di una qualche tenerezza a spingerti tra le braccia del primo conosciuto. Rosa caduca di pianta senza radici, odorosa di vita ma presto destinata a sfiorire, chiunque altro avrebbe goduto senza merito di quel tuo passeggero abbandono. Con la tensione che s’andava spegnendo, ho poi seguito i tuoi gesti tornati sicuri con cui cancellavi le tracce della recente intimità: hai ricomposto l’abito, ridato il verso ai capelli, hai preso la mia mano e mi hai ricondotto tra gli amici. E mentre turbato mi lasciavo guidare in quel nuovo presente, pensavo alla casualità del nostro incontro nonsense, sulla quella terrazza bianca del Selenia, in una notte calda di fine estate”.
E quello fu un gioco, una tensione dei corpi, una ricerca di tenerezza? Forse la volontà di sentirsi immortali, eternamente giovani, senza domani, così il gioco non dovrà mai arrestarsi. Carmine Rossi Vairo da vero gentleman ricorda quella notte al Selenia come una notte che non appartenne a nessuno, solo alla propria anima, alla propria inconsapevolezza, ma così vibrante “di follia e di sano epicureismo” da essere un omaggio ad una vita assoluta, umana e lacerante nei suoi chiaroscuri, devotamente venerata, bagnata dalle acque di Santorini e toccata dal fascino del disordine.
Eppure i protagonisti dei suoi racconti “Galatea”, “Il polpo”, “Il barbone con i pattini lucenti e il suonatore di violino-tromba”, sembrano vivere in un giardino appartato ed accogliente, in cui nemmeno il sole agostano riesce ad essere davvero bruciante.
La grandezza di Carmine Rossi Vairo è nelle sensazioni che suscita, che danno un elegante languore in un realismo immanente, senza alcuna concessione lirica o intimistica. È la vita di un uomo, corpo ed anima, un manifesto di indipendenza, di libertà, libertà anche di perdere la testa, di godere, di soffrire e di invocare, sempre, la passione.
La sua impeccabile narrazione diventa verità di un’esistenza che si rigenera in mirabili passaggi di
viola, rossi, gialli e azzurri, sotto un cielo che non riesce a nascondere il Paradiso.
Forse nascosto in quegli occhi da zingaro del suonatore di violino-tromba che accarezza dolci melodie, colte e demodé, con le sue dita che neanche il freddo riesce a fermare e quella musica penetra nell’anima, colorando di meraviglia tante infanzie come per un’improvvisa creazione ossessivamente cercata nella bellezza dell’istinto.
“Di lui ho sempre ammirato la capacità di far vibrare le corde del suo originale violino nelle gelide mattine di inverno, quando, con la neve in quell’incrocio ventoso la temperatura scende di molti gradi sotto lo zero, ma le sue dita nude che sporgono dai guanti mozzati si muovono veloci con agilità e perizia. La sua musica fa fluttuare in quell’aria frizzante farfalle lucenti davanti ai miei occhi desiderosi di sole”.
L’Autore getta una nuova luce umana, luce purissima sull’incanto di ogni luogo man mano che gli si svela.
Viaggia in una dimensione quasi mitica e si espone a tutte le violente suggestioni storiche e naturalistiche e le tiene insieme in una descrizione che avvince e convince.
Sembra di udire la voce di Parmenide e di vedere la testa di Apollo in questo magnifico Cilento, dove gli uomini sono nient’altro che esperimenti di esistenza e restano schiacciati dall’arte, simbolo di perfezione e di eternità.
Carmine Rossi Vairo viaggia e scopre una bellezza sconosciuta ai sensi eppure familiare all’anima, toccata dagli Dei e dalla purezza della vita e dell’alba.
Professoressa Luciana Capo

Carmine Rossi Vairo, Graffiti, Palombi Editore, 2017, pp. 144

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